TERAPIA ANALGESICA E SEDAZIONE NEI MALATI TERMINALI:
EUTANASIA A PICCOLE DOSI?
Aspetti
farmacologici e clinici
dott.ssa Anna De Luca - dott.ssa
Fulvia Vignotto
Unità Operativa autonoma di Terapia del
Dolore e Cure Palliative
Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista della Città di
Torino
Il
progresso dell’Oncologia clinica, delle procedure diagnostiche, della terapia
specifica ( chirurgica, radiante, farmacologica ) ha, certamente, prodotto un
maggior numero di guarigioni.
Nei pazienti
oncologici stiamo, di contro, assistendo – grazie ai successi di questi ultimi
anni - ad un progressivo allungamento dei tempi tra la fine dei trattamenti
specifici, rivolti alla malattia tumorale stessa, e il momento della morte.
In questo
lasso di tempo, non essendosi ottenuta la remissione della malattia, il malato
va incontro ad una sequela di sintomi sempre più gravi e invalidanti.
Quando
l’intervento medico è rivolto al controllo dei soli sintomi e non più della
guarigione entriamo nell’area delle cure palliative.
Le cure
palliative, attraverso un intenso programma, hanno lo scopo di ottenere la
migliore qualità di vita possibile per il paziente e per i suoi famigliari.
Le cure
palliative:
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Affermano il valore della vita, considerando la morte come
un evento naturale;
¨
Non prolungano ne abbreviano
Le cure
palliative comprendono un intenso programma di cure per i pazienti la cui
malattia non risponde ai trattamenti specifici. Si tratta di pazienti con
malattia in fase avanzata, in ulteriore progressione, con aspettativa di vita
limitata, per i quali l’obiettivo delle cure è la qualità di vita. In questa
situazione il controllo del dolore e degli altri sintomi, l’attenzione verso
gli aspetti psicologici e sociali sono di capitale importanza.
Lo scopo
delle cure palliative è quello di ottenere la migliore qualità della vita
possibile per il paziente e per i suoi famigliari. Come si può osservare nel
diagramma, la maggior parte degli aspetti che caratterizzano le cure
palliative, sono applicabili anche più precocemente nel corso della malattia,
in parallelo alle terapie antineoplastiche. La radioterapia, la chemioterapia e
la chirurgia continuano a svolgere un ruolo anche nelle cure palliative e
vengono applicate laddove i benefici sintomatici dei trattamenti, siano
chiaramente superiori agli svantaggi. Le procedure diagnostiche vengono ridotte
al minimo.
Le cure
palliative :
¨
Affermano il valore della vita, considerando la morte come
un evento naturale;
¨
Non prolungano ne abbreviano la vita dell’ammalato;
¨
Provvedono al sollievo dal dolore e dagli altri sintomi;
¨
Integrano gli aspetti psicologici e spirituali
dell’assistenza;
¨
Offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia
dell’ammalato a convivere con la malattia e poi ad elaborare il lutto;
Il
sollievo dal dolore costituisce sicuramente un punto cardine di questo
programma di cure: l’assenza del dolore viene considerata come un diritto di
ogni paziente ammalato di cancro e così la possibilità di ricevere le adeguate
terapie analgesiche.
Per la
maggior parte dei pazienti la sofferenza non è solamente fisica, ma abbraccia
un ambito psicologico, sociale, spirituale.
Infatti
un progresso sostanziale nella risposta data alla sofferenza del malato
terminale è stato determinato dal superamento dell’obiettivo di semplice
controllo del dolore, che è stato ampliato in “migliore qualità di vita”. Nell’accezione ormai nota di dolore come
esperienza multidimensionale, un’attenzione crescente è stata dedicata in
questi anni alle componenti
psicologiche che, accanto ai fattori fisiologici, culturali, sociali,
determinano la qualità di vita dei pazienti in fase terminale.
E’
soprattutto nei Centri che si dedicano al sollievo del dolore oncologico che
inizia un ripensamento, derivante dalla presa di coscienza di quanto la
sofferenza del malato inguaribile sia complessa. Ci si è resi conto che occorre
superare una visione tecnicistica, o perlomeno di ampliarne gli orizzonti per
raggiungere l’adeguata integrazione fra medicina focalizzata agli stadi
terminali di malattia, farmacologia, psicologia, sociologia, antropologia.
Questa comporta un diverso approccio al malato, inteso non più come solo caso
clinico, ma come persona da comprendere empaticamente, una nuova attenzione
alle più profonde richieste del paziente in stadio avanzato, il superamento fra
gli “addetti ai lavori” della oppiofobia. Una delle conseguenze è stata la
messa a punto di metodiche farmacologiche efficaci ed impiego più ampio ed
agevole di un tempo, in grado attualmente di controllare il dolore oncologico
in una percentuale intorno all’85% dei pazienti, mentre nella maggior parte dei
pazienti che costituiscono il 15 % residuo, bisogna far ricorso ad alcune procedure
invasive rivolte all’interruzione delle vie di trasmissione del dolore ( es.
tecniche neuroablative e neurolitiche).
Sappiamo
che dobbiamo adottare un programma di cura personalizzato che tenga conto del
tipo di dolore lamentato dal paziente, del tipo di tumore, della contemporanea
presenza di altri problemi clinici e dello stato psicologico. Nessun
trattamento analgesico può essere considerato definitivo, ma deve sottostare a
continui aggiornamenti, in relazione al sopraggiungere di sempre nuovi sintomi
e alle nuove condizioni cliniche –assistenziali che si vengono a creare. Durante gli ultimi giorni di vita, alcuni
pazienti preferiscono rimanere al
proprio domicilio, mentre la maggior parte dei pazienti viene ricoverata in
ospedale. La scelta dipende da molti fattori: la preferenza del malato,
l’esistenza di una équipe per l’assistenza
domiciliare, in grado di offrire adeguato supporto al paziente e alla
famiglia e capacità a gestire i momenti di crisi legate al sopraggiungere di
sintomi particolarmente angoscianti, o ad aspetti emotivi.
Fatta salva la volontà del malato, la scelta
del ricovero ospedaliero avviene in caso di sintomi difficilmente controllabili
a domicilio, mancato supporto assistenziale per il malato e la famiglia, la
delega da parte di quest’ultima a medici e infermieri dell’assistenza alle
ultime fasi della malattia, perché i famigliari vogliono conservare il ricordo
del loro congiunto come era prima.
Io credo
che tutti noi abbiamo conosciuto uno di questi ammalati: parente, amico o
conoscente con il quale abbiamo condiviso una parte più o meno lunga del suo
percorso di malattia.
Nelle
fasi più avanzate della malattia oncologica, l’ammalato vive di solito una
esperienza di intensa sofferenza, tanto da attribuire a quest’ultima la
definizione di “dolore totale”. Nel
decorso della malattia ha già conosciuto l’ansia, la depressione, la rabbia per
l’insuccesso terapeutico, il risentimento verso la malattia, il dolore che
“impedisce di pensare”. Ma adesso disperazione, ansia, depressione, possono
insorgere non solo come reazione alla
sofferenza fisica, ma anche al senso di perdita delle capacità vitali e dalla
paura della morte.
Nei
malati terminali la maggior sofferenza è in rapporto al dolore non alleviato,
alla depressione, alla perdita del controllo, anche delle funzioni corporee,
diventando dipendenti e quindi un peso per la famiglia e, non ultimo, la
perdita della dignità.
Questi
fattori condizionano, a loro volta, la soglia del dolore
Occorre
ricordare che l’80% dei pazienti presenta più di una localizzazione del dolore
e il 34% più di quattro. La prevalenza
del dolore aumenta con il progredire della malattia, con variazioni
significative in base alla sede primitiva del tumore. Oltre alla sede primitiva
rivestono particolare importanza lo stadio della malattia, la presenza di
metastasi, il coinvolgimento di
strutture ossee, la vicinanza del tumore a strutture nervose, alla produzione,
da parte del tumore stesso, di sostanze algogene.
A questo
si aggiunge il fatto che nelle ultime fasi della malattia, l’impatto che il
dolore esercita, è amplificato dall’interazione che avviene fra il dolore e i
trattamenti volti a controllarlo, e gli altri sintomi comunemente presenti come
: astenia, anoressia, nausea stipsi, dispnea e un certo grado di deterioramento
delle funzioni cognitive ( stato confusionale). Va inoltre ricordato che un dolore intenso non controllato, si
associa spesso ad altri sintomi, come disturbi del sonno, diminuzione dell’appetito,
ridotta concentrazione irritabilità e depressione. Il dolore è una causa
importante di disturbi psichiatrici, che scompaiono quando esso viene
controllato.
La
terapia analgesica delle fasi avanzate di malattia, prevede l’utilizzo
fondamentalmente di farmaci che possono sedare il dolore direttamente come :
Analgesici narcotici
Morfina, metadone, fentanyl
Altri farmaci cosiddetti adiuvanti i quali, possono
intervenire sul dolore attraverso un meccanismo indiretto e quindi potenziare
l’azione analgesica, oppure sono in grado di controllare la maggior parte degli
effetti collaterali dei narcotici.
Es. farmaci antidepressivi,
ansiolitici, antiepilettici, cortisonici, tranquillanti, antinausea.
Questo gruppo di farmaci viene
sempre utilizzata in associazione agli analgesici narcotici.
Occorre aumentare il sollievo
del dolore , oltre all’analgesia con:
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Analgesici
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Sonno e riposo
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Compassione e comprensione
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Compagnia e distrazione
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Ridurre l’ansia
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Migliorare l’umore
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Facilitare il rilassamento
Antiinfiammatori
Nel trattamento del dolore da
cancro in fase avanzata, l’analgesico e la sua via di somministrazione,
necessitano spesso di essere modificati, in base alla evoluzione della
malattia, alla necessità di incrementi significativi di dosaggio, alla presenza
di dolore che non recede dopo la somministrazione di un determinato analgesico.
Va inoltre considerata la tossicità correlata ai farmaci narcotici e che si
manifesta con nausea/vomito, stipsi, sedazione, delirio.
Tra gli effetti collaterali
della morfina, la sedazione è quello più spesso temuto dal paziente e dai suoi
familiari. (Sedazione, tolleranza, assuefazione sono i miti legati alla
morfina).
Tuttavia la paura di una
eccessiva sedazione indotta dalla somministrazione della morfina per bocca, è
probabilmente esagerata. Dalle esperienze cliniche sappiamo che essa si
manifesta in circa il 20% dei pazienti, ma soprattutto sappiamo che gli effetti
della morfina sono spesso complessi e variabili. La valutazione delle funzioni
cognitive (attività cognitive come percezione, intelligenza, linguaggio,
pensiero) in questi pazienti viene
inficiata da un certo numero di fattori.
Anzitutto è la difficoltà della
misurazione delle variabili psicologiche per
se , seguita dall’interferenza
degli altri farmaci assunti dai pazienti , come gli antinausea e vomito
che possiedono una azione sul sistema nervoso centrale. Come abbiamo visto
precedentemente questi pazienti assumono in genere neurolettici,
antiinfiammatori non steroidei, antidepressivi e anticonviulsivanti.
Il cancro in fase avanzata, per
sua natura, diventa spesso una malattia sistemica nella quale le funzioni
psicomotorie possono essere alterate direttamente, come in caso di metastasi
cerebrali, o più indirettamente attraverso alterazioni di tipo biochimico
dovute ad insufficienza epatica o renale, ipercalcemia o effetti
paraneoplastici.
La scelta dell’analgesico da
utilizzare e la sua via di
somministrazione , necessitano spesso di essere modificati, in relazione al
peggioramento delle condizioni cliniche. Gli analgesici vanno sempre assunti
regolarmente, ad orari fissi, in modo da prevenire l’insorgenza del dolore.
Spesso la via orale,
tradizionalmente usata per la somministrazione della morfina, non può essere
utilizzata, e bisogna ricorrere a vie alternative, utilizzando dispositivi di
infusione continua.
Abbiamo visto come il bagaglio
tecnico e farmacologico e l’esperienza clinica, consentano, oggi, trattamenti
antalgici, volti ad ottenere l’analgesia, evitando la riduzione o la perdita
dello stato di coscienza del malato (un certo grado di sedazione come effetto
collaterale della morfina viene considerato accettabile nella globalità del
trattamento )
Si può ricorrere alla sedazione
completa solo se si rende necessario eseguire manovre che generano ulteriore
dolore, non controllabile dalla regolare assunzione in corso degli analgesici.
(cambio di una medicazione, rimozione manuale di un fecaloma )
Parliamo di azioni indotte,
transitorie e completamente reversibili e, a questo livello, evidentemente non
nascono grandi problemi.
Solo nell’ultimissimo periodo
della vita dei pazienti terminali, qualora il controllo di sintomi gravi ed
angoscianti come dolore o dispnea, non possa più avvenire con terapie rivolte al ripristino del comfort e della
funzionalità, la sofferenza potrebbe essere alleviata da una sedazione
intenzionale, con perdita irreversibile della coscienza. La sedazione, che può
avvenire solo con il pieno assenso del malato, dato anche precedentemente sotto
forma di testamento in vita, comporta solo la perdita di una funzione, quella
cognitiva e non la morte cerebrale. E’ lecito che si faccia tutto ciò che la
scienza medica è in grado di fare , sotto il profilo pratico e applicativo?
Questa non è l’unica scelta
critica di fronte alla quale si trova
il medico, alla fine della vita del paziente.
E’ noto che, nell’imminenza
della morte, il dolore e la sofferenza del malato sono maggiori. I pazienti
devono conservare il loro diritto a chiedere analgesici in quantità sufficiente
a controllare la sintomatologia, ed il medico ha il dovere di somministrare
loro tali farmaci. La domanda che ci si pone allora è, se l’obbligo di
alleviare dolore e sofferenza può diventare maggiore di quello di non
accelerare la morte del paziente.
E’ possibile che l’uso di
adeguati dosaggi di farmaci analgesici conduca ad un’abbreviazione della vita
del paziente, ma questo ovviamente non ha nulla a che vedere con il voler
abbreviare intenzionalmente la vita. L’eventuale anticipazione della morte, a
causa di un’adeguata somministrazione di analgesici, sta a significare, a
nostro avviso, che il malato non era più in grado di tollerare trattamenti
necessari per una vita dignitosa e sopportabile.
Non dobbiamo soddisfare la
richiesta di eliminare o ridurre la sofferenza? Stiamo applicando un’eutanasia
morbida ? O a piccole dosi?
Sicuramente nessun operatore
sanitario, né il medico che prescrive la cura, né l’infermiere che somministra
la terapia, né tantomeno il famigliare che sollecita l’intervento di riduzione
del dolore, ha come intento quello di abbreviare la vita. Intervengono in un
contesto di doppio effetto, dove l’evento svantaggioso è inevitabile
conseguenza del conseguimento del beneficio per il paziente. E’ proprio per la
teoria del doppio effetto che non si può identificare con l’eutanasia.
Quando non siamo così
vicini alla morte, il dolore è un aspetto della sofferenza umana oggi più
controllabile.
Ma questo non vuol dire che lo
stiamo facendo seriamente e in modo capillarmente diffuso; a volte interveniamo
troppo tardi e con ancora poca
interdisciplinarietà.
Vorrei, prima di concludere,
sottoporvi i dati sui decessi avvenuti in strutture ospedaliere americane, di
malati gravi e anziani. DIA
I dati, riportati dalla rivista
Lancet nel gennaio 1997, e riguardanti pazienti che, negli ultimi giorni di vita, si sono
lamentati di gravi dolori, sia fisici che emotivi, sono ancora impressionanti. Circa due terzi dei familiari del campione
dei pazienti, presi in esame nell’inchiesta condotta in un grosso centro
ospedaliero americano, hanno dichiarato che la fine dei loro congiunti era
stata accompagnata da sofferenze
insopportabili. E da noi la situazione non è certo migliore. Anche il
Sistema Sanitario italiano deve ancora percorrere una lunga strada prima di
poter affermare di aver migliorato le cure per i malati prossimi alla morte.
Forse, anche per questo, ci
troviamo ancora troppo spesso di fronte al dilemma di scelte critiche verso la
fine della vita dei nostri pazienti.